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Società in house, il nodo-fallimento
SOCIETÀ 3.0

Il tema della fallibilità delle società in house, anche nell’ipotesi che esercitino attività di gestione di servizi pubblici non essenziali, appare di straordinaria attualità. Non c’è dubbio, infatti, che risulti strettamente connesso all’abuso che gli enti territoriali hanno fatto dello strumento, inducendo la pubblicistica a definire il fenomeno in termini di “socialismo municipale”. Da questo discende il piano Cottarelli di riduzione del numero delle partecipate pubbliche e l’attesa stesura dei prossimi decreti attuativi della legge Madia sulla Pa, che dovrebbero prevedere norme ad hoc.

Ad oggi, il tema della fallibilità di tali enti appare ancora controverso. La giurisprudenza risulta equamente divisa. Chi esclude l’autonoma fallibilità, sostanzialmente considera le società in house come delle «propaggini inanimate» dell’ente territoriale, i suoi amministratori come meri «esecutori» delle direttive del socio pubblico, la sua organizzazione come «ufficio distaccato» dell’ente locale, il suo patrimonio come non imputabile direttamente alla società, ma proprio dell’ente di riferimento. La sociètà in house, in sostanza, coinciderebbe con l’ente pubblico e, perciò, sarebbe al pari sottratto al fallimento, ai sensi dell’articolo 1 della legge fallimentare. 

Queste posizioni, però, non paiono convincenti. In primo luogo, legittimano l’abuso della disciplina sulla Spa, che se richiamata deve essere utilizzata nella sua interezza. Infatti, non è consentito usufruire solo di taluni effetti (considerati favorevoli) della fattispecie giuridica invocata (ad esempio, l’organizzazione corporativa, la disciplina delle obbligazioni o la responsabilità limitata) e rinnegarne altri (come la personalità giuridica, la responsabilità civile degli amministratori o la soggezione alle procedure concorsuali). 

Usufruire, poi, di criteri di natura sostanziale per regolamentare delle fattispecie giuridiche, superando e/o eludendo principi di ordine formale, appare operazione discutibile. Le norme, infatti, definiscono le società in house come del tutto identiche alle Spa a capitale privato e ciò anche in presenza di socio unico, la cui disciplina è dettata dal codice civile senza alcun riguardo (e distinzione) per la “natura” del socio conferente. E questo principio vale anche per il fallimento. Inoltre, negare l’autonoma fallibilità delle società in house sembra derogare ai principi dell’affidamento in buona fede dei terzi che, contrattando con essa, hanno confidato sulla legittima esistenza di una società ritualmente iscritta nel registro delle imprese come Spa e, pertanto, assoggettata in toto alla relativa disciplina. 

Infine, la sottrazione delle società in house ad autonomo fallimento può determinare l’ulteriore sgradevole effetto per cui l’insolvenza della società, non dichiarabile dal tribunale, potrebbe invece costituire concausa di una dichiarazione di dissesto, e di commissariamento, dell’intero ente territoriale, cui quella insolvenza andrebbe ricondotta. Con il risultato che a pagarne le conseguenze sarebbero anche, e ingiustamente, non solo i creditori dell’ente locale, già estranei ai rapporti con la società in house, ma tutta la cittadinanza.


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