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Regioni speciali, vanno abolite
Non esistono più i motivi che le hanno fatte nascere

«Le ragioni storiche e geopolitiche che hanno portato alla nascita delle regioni a statuto speciale non esistono più.» Perfetto. Enrico Rossi, presidente (Pd) della regione Toscana, nell’intervista di ieri su la Repubblica parte all’assalto delle cinque regioni a statuto speciale, che fruiscono di entrate tributarie molto maggiori rispetto alle quindici consorelle a statuto ordinario.

Conclusioni di Rossi: «Anche la Sicilia trattiene il 100% dei tributi e riceve finanziamenti ad hoc. E tutte e cinque sono fuori dai costi standard per i servizi erogati rispetto al resto del paese. Non mi sembra giusto. Per niente giusto.»

Torniamo alla Costituente. Quando la provincia di Aosta, sorta da poco più di quindici anni, fu tramutata in regione autonoma, sussisteva il problema delle rivendicazioni francesi. Sull’Alto Adige agivano le rivendicazioni dell’Austria. La Sicilia era percorsa dall’indipendentismo, perfino con mire di adesione agli Stati Uniti. In Sardegna era risorto un forte autonomismo. Sui confini orientali, poi, la Venezia Giulia era ridotta a brandelli, essendo finita o sotto la Iugoslavia titina o nel costituendo Territorio libero di Trieste. Insomma, incombevano pesanti problemi interni e internazionali, che si ritenne di acquetare attraverso statuti speciali che in qualche caso (Sicilia) venivano quasi a istituire uno Stato sovrano.

Si considerino, poi, le condizioni sociali della larga maggioranza di talune popolazioni. Arretrate economicamente le due grandi isole, molti valdostani non vivevano in condizioni floride. Non si può oggi sostenere che lo sviluppo economico recato anche dal turismo vada dimenticato. Fiumi di finanziamenti pubblici ancor più travolgenti sono giunti in Sicilia, servendo però essenzialmente a creare o privilegi per la casta o posti di lavoro buroindotto o sprechi puri e semplici. Nel frattempo, sono rimasti immutati i princìpi che regolano tali erogazioni, come se, putacaso, in Valle d’Aosta regnasse la miseria. D’altra parte, più in piccolo, rimane ancora la zona franca di Livigno, un tempo paese isolato per tre quarti dell’anno a causa della neve e oggi rinomata stazione sciistica e di villeggiatura, in cui l’antica indigenza non è ricordata che da qualche anziano.

Riportare in un regime ordinario la specialità delle cinque regioni, nonostante le doglianze di Rossi (e dei colleghi presidenti «ordinari») e le paginate di polemiche sulle spese di alcune fra queste regioni, resta però un sogno. A tacere delle peculiari condizioni del Trentino-Alto Adige (che fra l’altro è una semplice cornice di due province autonome, ciascuna con mega competenze) legate a trattati internazionali, ovviamente la classe politica interessata è già capace di difendere con caparbia efficienza i privilegi goduti. Basti dire che alle riforme costituzionali in discussione al Senato, di rilevanti dimensioni, le regioni a statuto speciale e le province autonome sfuggono. Una norma transitoria, infatti, paralizza l’applicazione delle nuove disposizioni, concernenti il titolo V della Carta costituzionale, «fino all’adeguamento dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime regioni e province autonome». Figuriamoci se si riuscirà mai a raggiungere qualche intesa che ridimensioni ruolo e soprattutto spese delle cinque regioni speciali.


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