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Spendere meno per spendere meglio
Tra tagli e riforme

Un mostro tentacolare che drena risorse pubbliche e “restituisce” ai cittadini servizi spesso lontani dagli standard europei, oppure al contrario una “grande incompiuta” che tra riforme nate male (il nuovo Titolo V del 2001 targato centrosinistra) e realizzate solo in piccola parte (il federalismo fiscale voluto in primis dalla Lega nel 2009) attende ora di trovare una sua definitiva composizione? 
Da decenni si prova, nel susseguirsi dei governi e delle diverse stagioni politiche, a ridefinire il raggio di azione delle Regioni, con il risultato che al momento, tra scandali e malversazioni, il distacco con i cittadini-elettori va ampliandosi, e stenta ad affermarsi la necessaria correlazione tra il potere impositivo accordato a questi colossi dell’amministrazione pubblica e la loro effettiva capacità di spesa. 
Il paradosso dell’Italia – come ha osservato l’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli – è che vi sono moltissime regole, «che dipendono dal fatto che nessuno si fida degli altri» e questo «genera sia regole tanto minuziose quanto inapplicabili, sia complessità delle strutture organizzative». 
La burocrazia regionale non è da meno rispetto alla consorella. E così ci ritroviamo con 34mila centrali di acquisto della pubblica amministrazione. 
Il problema è che, se si osserva la dinamica di spesa delle Regioni, i divari appaiono enormi. 
Un vero, incisivo e strutturale percorso di revisione della spesa pubblica in Italia (un moloch che assorbe 827 miliardi di risorse, pari al 50,5% del Pil) non può che passare dunque attraverso un’attenta ridefinizione dei diversi centri di spesa, e la contestuale riallocazione e razionalizzazione sia delle spese di competenza delle amministrazioni centrali che di quelle in capo alle autonomie territoriali. I risparmi (non certo frutto dei vituperati tagli lineari) ne diverrebbero naturale corollario. 
La spesa pubblica complessiva era pari a circa il 23,6% del Pil nel 1951. Nel 1993, l’anno successivo alla grave crisi finanziaria che causò la momentanea uscita dell’Italia dal sistema di cambi allora in vigore, e rese necessaria la maxi-manovra correttiva di 93mila miliardi delle vecchie lire, raggiunse il 56,6%, per scendere fino al 47,3% nel 2000 e poi risalire ancora fino al 51,2% nel 2010, più o meno lo stesso livello di oggi. Certo, magna pars di questa enorme massa di risorse pubbliche è rappresentata dalla spesa per interessi sul debito pubblico. Nel 1951 spendevamo appena l’1,2% del Pil. Nel 1993 si è toccato il picco del 12,7 per cento. Ora, grazie al calo dei tassi e alla discesa dello spread siamo al 4,2% del Pil. Se si guarda alla spesa corrente primaria al netto degli interessi, siamo al 42,8% (poco meno di 700 miliardi) ed è proprio in questo enorme segmento che la spending review dovrebbe dispiegare i suoi effetti. 
Stando alle analisi condotte da un attento conoscitore della spesa pubblica come Piero Giarda, ammonta ad almeno 80-100 miliardi la spesa «potenzialmente aggredibile». Risparmi da dirottare al taglio delle tasse al “recupero” dell’aggregato di spesa che maggiormente è stato sacrificato sull’altare del rigore: gli stanziamenti in conto capitale e per investimenti pubblici, che negli ultimi vent’anni del secolo scorso assorbivano circa il 5% del Pil, per contrarsi negli anni 2000-2010 attorno al 4% medio annuo, e scendere poi ulteriormente al 3,6% del 2015.
Le Regioni amministrano la sanità con il peso dei suoi 110 miliardi l’anno. Nel totale le amministrazioni locali gestivano nel 1951 il 18% della spesa complessiva, nel 1980 il 26,8% e nel 2008 il 31,6% del totale. Ma la questione non è tanto “quanto” si spende ma “come” si spende. Il costo medio regionalizzato della spesa per servizi pubblici è di 4.500 euro per abitante, e il picco è nelle Regioni meridionali con una spesa pro capite spesso superiore ai 5.000 euro. Stando a un recente studio di Confcommercio, il rapporto tra livelli di servizio in Lombardia e Calabria è di quasi 3 a 1. 
In un contesto pur altamente sperequato al suo interno, spetta proprio alla spending review ritagliare spazi consistenti per provare a ridurre una pressione fiscale che le statistiche ufficiali collocano al 43,5% del Pil. Un obiettivo effettivamente perseguibile? Come sempre è una questione di priorità. Il Documento di economia e finanza cifra – è vero – in almeno 10 miliardi la dote complessiva della spending review nel 2016, ma si tratta di risorse che – se effettivamente realizzate – sono già prenotate per disinnescare la mina della clausola di salvaguardia che altrimenti scatterà dal prossimo anno sotto forma di incrementi dell’Iva e delle accise. Obiettivo pienamente condivisibile. Il problema è che restano ben pochi margini per ridurre le tasse. Si può provare ad innalzare l’asticella dei tagli, ma con molti punti interrogativi poiché – come non manca di osservare lo stesso Cottarelli – intervenire sulla spesa pubblica è operazione prima di tutto (se non esclusivamente) politica, e dunque ha molto a che fare con la gestione del consenso e dunque con il responso delle urne, sempre dietro l’angolo.


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