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Ticket fisso sui ricorsi negli appalti
Corte Ue/1. I giudici europei ritengono legittimo il contributo da 2mila a 6mila euro modulati in base all’entità dei lavori o dei servizi in gara

La Corte di giustizia dell’Unione europea si pronuncia sui contributi che vanno pagati quando si impugna una gara di appalto. La sentenza è del 6 ottobre 2015 (C-61/14) e ritiene legittimi gli importi (da 2mila a 6mila euro) dovuti contestualmente al deposito di ricorsi in primo e in secondo grado. La sentenza stessa, tuttavia, consentirà agli operatori notevoli risparmi lungo il procedimento giurisdizionale, con riferimento ai motivi aggiunti e ai ricorsi incidentali. Questa seconda affermazione della Corte di giustizia interessa, in quanto principio generale, tutti i tipi di contenzioso dinanzi ai giudici amministrativi, cioè anche quelli che non riguardano appalti di lavori, servizi o forniture. 
Per ciò che riguarda il primo tema, cioè la fase iniziale della lite, i giudici europei ritengono che la soglia di peso eccessivo del contributo iniziale sia individuabile nel 2% del valore dell’appalto: solo un contributo che superi tale percentuale limiterebbe l’esercizio del diritto alla giustizia. Non ha quindi rilievo il vantaggio che l’impresa può attendersi dall’aggiudicazione dell’appalto (il cosiddetto utile d’impresa, che può anche essere modesto), con la conseguenza che è corretto pretendere il pagamento di importi fissi (2, 4 e 6mila euro) a seconda del valore dell’appalto (inferiore a 200mila euro, tra 200mila e 1 milione, superiore al milione di euro). Rimane quindi il rilevante peso economico del contributo iniziale, che in materia di appalti aggiunge ad altri ostacoli quali i tempi ridotti per agire in giudizio (30 giorni per le gare), i limiti alla lunghezza degli atti giudiziari (25 pagine) e infine le difficoltà, per chi risulta vincitore in giudizio, di ottenere l’effettiva assegnazione dei lavori nel frattempo iniziati da un altro, scorretto concorrente. 
Ogni problema sull’entità del contributo, sottolinea la Corte, deve poi tenere presente che, in caso di vittoria in giudizio, vi è il diritto a ottenere il rimborso del contributo pagato. Il secondo principio espresso dalla Corte, può giovare a tutti coloro i quali hanno liti giudiziarie, ed è quello che dà rilievo al «bene della vita» cui la lite tende. Quando infatti in un unico procedimento giurisdizionale la parte interessata presenti poche richieste successive, quali motivi aggiunti o ricorsi incidentali, tutti convergenti verso un unico risultato, dovrà accertarsi se vi sia un «ampliamento considerevole» dell’oggetto della controversia già pendente: mancando tale ampliamento, non vi è nemmeno l’obbligo di pagare ulteriori tributi giudiziari. Ciò consentirà risparmi consistenti, in quanto ogni ricorso si arricchisce, in attesa della sentenza, di fasi successive quali i motivi aggiunti o le domande incidentali man mano che si chiarisce l’operato dell’amministrazione. Se i vari segmenti della lite convergono verso un unico oggetto (l’annullamento del provvedimento lesivo), il contributo sarà unico. Spetta al giudice amministrativo l’accertamento su tali elementi: fino a oggi si è applicata una circolare del Segretariato della giustizia amministrativa (18 ottobre 2011) che esigeva un contributo ogni volta che si ampliasse l’oggetto del giudizio, impugnando provvedimenti diversi o connessi. Di fatto, ogni volta che si depositava un ulteriore atto notificato alle controparti, scattava l’onere di pagare un nuovo contributo, perché in ogni atto si leggeva un ampliamento del giudizio. Oggi invece, sulla base del chiaro indirizzo della Corte di giustizia si potrà adottare il criterio del «bene nella vita» (Consiglio di Stato, adunanza plenaria 15/2011) tenendo cioè presente il risultato cui tende la parte ricorrente. Se tale risultato è unico (la vittoria di una gara, un titolo edilizio, un posto messo a concorso), non conta il numero degli atti giudiziari se questi servono solamente a circostanziare la pretesa.


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