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Con la riforma nuove regioni più responsabili
L’ANALISI 

L’approvazione della riforma costituzionale, realizzando un nuovo tipo di Senato, impone alle Regioni, proprio per favorire la crescita dei loro territori e dunque dell’intero Paese, anche di dare un senso nuovo alla loro autonomia, facendo emergere sempre più il valore strategico del regionalismo «differenziato» che le caratterizza.
Nato ai tempi della riforma costituzionale del Titolo V – quella del 2001 – all’insegna dello scontro ideologico tra i sostenitori di un’autonomia regionale responsabile e quelli di una devolution “senza se e senza ma”, il regionalismo «differenziato», espresso in particolare all’art. 116 della Costituzione, può trovare oggi – finalmente, si direbbe – una definitiva stabilizzazione, proprio alla luce del nuovo rapporto tra lo Stato e le autonomie delineato dal testo di riforma costituzionale Renzi-Boschi, appena approvato.
Infatti, dentro un contesto di un nuovo Titolo V che vede una più efficace allocazione e razionalizzazione delle competenze tra lo Stato e le Regioni – a partire dalla soppressione delle competenze concorrenti e dall’introduzione della clausola di supremazia della legislazione dello Stato su quella regionale per il perseguimento di programmi di interesse nazionale –, l’idea di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», tanto per le regioni ordinarie quanto per le regioni speciali, come previsto dagli ultimi emendamenti (Russo e Zeller) approvati dal Senato, viene a rafforzarsi perché fondata su vincoli responsabilmente più chiari, a partire da quello dell’equilibrio di bilancio.
Ciò è un bene, almeno per due ragioni. 
Innanzitutto, perché definitivamente chiarisce la natura del nostro ordinamento in tema di forma di Stato, bloccando le pericolose oscillazioni del pendolo tra lo Stato e le Autonomie, intervenute dal 2001 ad oggi, intorno ad un punto fermo: ossia quello di un Paese imperniato su un rilevante regionalismo, non su un reale federalismo. Si vengono così a superare, infatti, le incertezze di un quadro ordinamentale che invece, per molti, già allora, aveva proprio le sembianze di un Paese tecnicamente federale; così facendo, si prende atto, appunto, del grave errore di visione che ha prodotto nell’ultimo quindicennio evidenti danni sistemici: ad esempio, dal forte aumento del contenzioso tra lo Stato e le Regioni intervenuto di fronte alla Corte costituzionale o al fallimento, non a caso, del c.d. federalismo fiscale. 
E poi, perché il nuovo testo dell’art. 116 responsabilizza le regioni ad ottenere ulteriori forme di autonomia, nel rispetto del cardine di responsabilità proprio delle democrazie stabilizzate: ossia quello dell’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, già adottato sul piano nazionale grazie alla riforma dell’art. 81 della Costituzione. Peraltro, come ha sottolineato in merito già Sergio Fabbrini nel suo editoriale di domenica scorsa su questo quotidiano, si tratta di un vincolo che, se adeguatamente utilizzato, protegge anche il legame tra “solidarietà e responsabilità”.
Pertanto, la fine del mito del federalismo che questa riforma produce non fa tramontare per nulla, invece, quella di un regionalismo in questo Paese più autonomo, cioè di qualità. Anzi, lo esalta perché lo invita ad essere più responsabile, cioè capace di dare un senso diverso a se stesso, anche rispetto al tema dell’autonomia delle Regioni speciali, che questa riforma non è riuscita ad affrontare in termini sistemici. 
Certo, impone che esso avvenga nel rispetto di una “nuova” regola, anche per le Regioni: quella dell’equilibrio di bilancio. Fatto non da poco, anche in termini culturali, per le dinamiche del governare nel nostro Paese.
Eppure: così come è finita la stagione fallimentare del Senato “federale” soppiantata da quella di un Senato delle autonomie, “federatore” tra queste con lo Stato e l’Unione europea, è tempo che finisca anche quella di un governare in modo irresponsabile i fondi pubblici, favorendo definitivamente, grazie a regole appunto incentivanti, tanto leadership e classi dirigenti regionali più virtuose, quanto cittadini più consapevoli del valore di un governare di qualità.


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