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In Italia non si vive di sola banda larga

Sono giorni cruciali per la banda larga italiana: prima l’incontro organizzato dall’Associazione Italiana Internet Provider (AIIP) (che conta circa 50 OLO), poi la conferenza degli industriali TLC (con rappresentanti da tutta la filiera) organizzato da Asstel e che si è svolto ieri 27 ottobre a Roma.

Se nel primo caso, tuttavia, forte era la pressione verso la banda larga, nel secondo il discorso si è traslato sul lato della domanda. Come se il broadband non fosse il vero problema. I dati di partenza sono però gli stessi: l’Italia primeggia per la penetrazione della connessione mobile, ma per la connessione Internet generale rincorre le altre grandi d’Europa. E sta in fondo alla classifica per quanto riguarda il broadband, così come nei servizi correlati e-commerce e e-government.

Nell’incontro organizzato a Roma da Confindustria il primo fatto rilevante è la presenza di tutta la filiera TLC: industriali, istituzioni e rappresentanti sindacali. Tutte le parti sedute dalla stessa parte a dialogare: c’erano i ministri Brunetta, Sacconi e Romani, Paolo Gentiloni, parlamentare del PD ed ex-ministro alle Telecomunicazioni, il presidente di AgCom Corrado Calabrò, i rappresentanti dell’industria Francio Bernabé, AD di Telecom Italia, Cesare Avenia di Ericsson, Marco Tripi di Almaviva (la più grande azienda italiana di call center), i rappresentanti sindacali Emilio Miceli (Slc-CGIL), Vito Vitale (Fistel-CISL) e Bruno di Cola (Uilcom-UIL) e da Confindustria Stefano Parisi, Presidente ASSTEL e AD di Fastweb, e il presidente Emma Marcegaglia.

Ma se nel primo incontro la cura individuata era una e aveva un nome e un cognome, banda larga, nel secondo caso il discorso ha assunto linee diverse: gli operatori hanno sottolineato che le connessioni ultraveloci non rappresentino la risposta, perché non è il digital divide il problema fondamentale. Sarebbero invece solo alcuni dei fattori da calcolare, subito dopo la (mancanza di) informatizzazione italiana e la mancanza di servizi, e conseguente domanda, da parte degli utenti.

D’altronde, è stato detto, gli operatori non si sono tirati indietro negli ultimi anni: gli investimenti privati sono stati in media di 6-7 miliardi l’anno (circa il 15 per cento dei ricavi), nonostante una flessione dei fatturati e dei margini pregressa alla crisi. Nel 2009 la contrazione è stata del 3,3 per cento e ha accelerato il trend di decrescita partito già nel 2006.

A pesare maggiormente sulle bollette degli operatori sarebbe il calo del traffico voce (che piazza l’Italia al più basso gradino nella classifica della penetrazione del fisso, ora al 77 per cento), non compensato da una crescita della banda larga del 7 per cento (sempre indietro, comunque, rispetto agli altri quattro principali Paesi europei con una penetrazione del 51 per cento), né da quella delle connessioni mobile (che, pur facendo segnare un primato nazionale, fanno arrivare la penetrazione della banda larga solo al 67-68 per cento totale). Il tutto quindi costa un calo di ricavi dell’8 per cento (per una perdita totale di 4,5 miliardi di euro).

Nonostante i dati della banda larga siano gli unici a far leggere un aumento dei ricavi (seppur minimo, intorno all’1 per cento), nelle conclusioni delle analisi (condotte dalla società Analysys Mason) riecheggiano le parole di qualche giorno fa del Ministro Brunetta: è inutile pensare agli 800 milioni che mancano all’appello della banda larga “quando il suo livello attuale di utilizzo è inferiore al 50 per cento”.

Il discorso è partito da un punto sottolineato sia da Parisi che da Bernabé: occorre cambiare la percezione del settore TLC, che non deve essere più considerato la gallina dalle uova d’oro. Solo perché dimostratasi profittevole non può essere “minacciato da proposte come la tassa a favore del cinema o la proposta a sostegno dell’editoria”. Non deve essere, dice Bernabé, un settore cui mettere le mani in tasca alla bisogna, ma uno strumento da considerare per il suo ruolo chiave per la politica industriale: ogni investimento nel settore dà un risultato ulteriore sul resto dell’economia.

Parisi ha affermato, inoltre, che è ormai “improponibile che gli operatori TLC che investono per aumentare la qualità delle proprie reti non possano garantire velocità maggiori e certificate ai content provider che, a parità di condizioni, sono disposti a pagare di più per offrire un servizio milgiore al cliente finale”. Lo studio presentato, peraltro, sottolinea che pur non potendo negare il ruolo positivo dei content provider sulla domanda, visto che contano per i suoi due terzi, gli stessi fanno impennare il traffico gravando come free rider sui costi di gestione delle connessioni.

Stesso discorso, ma più calcato, da parte di Bernabé: “Quello che sta avvenendo è che, dopo aver eliminato, correttamente, il monopolio dalle infrastrutture di trasporto e di accesso, si rischia di creare le condizioni affinché le posizioni dominanti, costituitesi al di fuori della filiera TLC, possano gradualmente estendersi nel segmento degli operatori di rete. Stiamo parlando delle posizioni dominanti dei fornitori di soluzioni, servizi e applicazioni digitali, spesso localizzati oltreoceano, quali Apple con iTunes, Google con l’advertisement, Skype e Facebook”.

Questi modelli di business diversi, basati sulla pubblicità e spesso condotti da aziende straniere, non solo pesano sulla filiera TLC italiana, ma anche sull’erario (hanno, afferma Bernabé, “profili fiscali tutti da verificare”), e infine sulle nuove normative da applicare in Rete (come nel caso della gestione dei dati degli utenti o della loro privacy). Stravolgendo conseguentemente la catena del valore e della filiera.

L’industria ha d’altronde continuato a fare la sua parte investendo nella banda larga: tuttavia, come ha spiegato Cesare Elenia, AD di Ericsson, margini inferiori non accompagnati da una riduzione di personale significa minori risorse da destinare al settore ricerca e sviluppo, con il rischio di bloccare il settore. L’industria sta inoltre pensando a come diversificare il suo business: deve diventare più servizio al cliente, più flessibile e votato alla personalizzazione del prodotto. Un pensiero in parte condiviso dall’AD di Fastweb, che parla di sopravvalutazione della net neutrality.

Il punto sottolineato dai vari interventi è che, accanto ai soliti problemi infrastrutturali, vi sono dei problemi che si possono definire ambientali e che finora non hanno guadagnato gli onori della cronaca: solo il 50 per cento delle famiglie italiane ha un PC, e “la maggior parte delle persone che non navigano ritiene che Internet sia inutile”.

Mancherebbero – altro che le infrastrutture – i servizi ad esse correlate ed è per questo che la filiera guarda alla domanda: i dati mostrano un’Italia in dietro nell’e-government (solo il 17 per cento dei cittadini lo utilizzerebbe), e nell’e-commerce (12 per cento). Queste sarebbero le vere sfide da affrontare. E per farlo si devono muovere non solo i privati ma anche i governi: entrambi devono votarsi a creare servizi e contenuti per far crescere la domanda innescando un circolo virtuoso, che spinga verso la possibilità di un premium price per ottenere maggior velocità.

Eppure anche Bernabé ha affermato che nel frangente di maggior contrazione del fatturato la domanda sostanzialmente ha retto, e che la causa era imputabile al calo dei prezzi. Al momento 2/3 delle risorse di rete sarebbero occupate tuttavia, secondo l’AD Telecom, da P2P e streaming: un abuse che congestiona la rete rallentando il servizio al cliente e ostacolando le aziende che lo forniscono. Con un’unica soluzione secondo Bernabé e Vitale di Cisl: far pagare i content provider per i servizi di rete.

Se i privati non hanno chiesto fondi aggiuntivi al Governo, bensì servizi e regole chiare (Parisi: “serve un quadro di regole chiare e stabili che incentivi chi dovrà programmare investimenti ingenti per i prossimi anni”), l’esecutivo non li ha certo promessi: sia l’intervento di Sacconi, che quello di Romani, che quello di Brunetta salutano gli (ormai ex) 800 milioni un tempo promessi per il digital divide. Spazio, ha detto il primo, alla coraggiosa intraprendenza dei privati (“visto i 7 miliardi di investimenti, i milioni pubblici sarebbero solo peanuts“), mentre il Ministro della PA ha sottolineato come gli sforzi siano stati già fatti, le riforme pure, e ora occorra solo cercare di cambiare le teste delle lobby reazionarie, “regole obsolete e comportamenti ostruzionisti” che si oppongono alle innovazioni. I professori che non hanno le competenze per gestire, per esempio, la Rete che già connette scuole e Ministero dell’Istruzione (su cui, afferma, passano giusto i dati delle tabelle delle supplenze), i medici e i loro sindacati allergici alle ricette o alle schede cliniche elettroniche, o i cancellieri dei tribunali “sentimentalmente attaccati alla carta”.

Gli operatori concordano che siano questi i settori dove privilegiare l’intervento pubblico: servizi che all’estero obbligano le famiglie ad avere un PC, sottolinea Parisi, o gli studenti universitari ad avere una connessione per scaricare il materiale didattico, in Italia sono ancora a sportello e basati su moduli e raccomandate.

Lo stesso Romani, in realtà, ha parlato del fatto che “non bisogna aspettare la domanda” per non rischiare di peccare di pigrizia: in quest’ottica va letto l’impegno alla società di infrastruttura di rete che sta per essere completata, e in cui ogni operatore trova una propria soluzione e posizione. Ma il coro che spinge verso un incremento della domanda, per giustificare eventuali investimenti, è sembrato pressoché unanime.

Ultimo punto sollevato nella conferenza: sono fondamentali per il settore le frequenze TV liberate e in attesa di essere messe all’asta. Bernabé ha parlato di questi dividendi del digitale terrestre da ricollocare a favore alle nuove connessioni, vedendo come fumo negli occhi il 30 per cento da ridestinare alle TV locali: l’allocazione delle risorse, d’altronde, dovrebbe essere commisurata all’utilità di una data tecnologia per l’economia nazionale.

Romani ha in parte smentito sue precedenti dichiarazioni in cui affermava che non vi erano per il momento frequenze disponibili per l’asta: ha parlato della possibilità che il bando si faccia, e delle alte aspettative del governo sulle cifre da incassare. Nella speranza che almeno parte di questi introiti venga reinvestito nel settore (se Tremonti sarà d’accordo).

L’incontro è stato chiuso da Emma Marcegaglia, che si è impegnata a garantire che l’agenda digitale diventi un tema prioritario di Confindustria, auspicando che anche alla politica riesca l’accelerazione, e sottolineando che i privati continueranno i loro investimenti nel settore (quei 7 miliardi annui che hanno riecheggiato nel corso di tutta la giornata) nella speranza che le istituzioni riescano a garantire regole chiare per questo settore. Da guardare come a un volano di sviluppo straordinario.


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