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La scuola è cosa delle regioni
La Corte costituzionale boccia la finanziaria 2011: aggregare forzatamente gli istituti e fissare soglie minime rigide del numero di alunni fa sì risparmiare lo Stato, ma comprime l’autonomia degli enti territoriali competenti

L’aggregazione negli istituti comprensivi scolastici, unitamente alla fissazione della soglia rigida di 1.000 alunni, conduce al risultato di ridurre le strutture amministrative scolastiche ed il personale operante all’interno delle medesime, con evidenti obiettivi di risparmio; ma, in tal modo, essa si risolve in un intervento di dettaglio, da parte dello Stato, in una sfera che, viceversa, deve rimanere affidata alla competenza regionale. Violano dunque la Costituzione le norme in materia di dimensionamento della rete scolastica contenute nella manovra finanziaria varata nel luglio 2011. Ad affermarlo la Corte costituzionale, che con la sentenza n. 147 del 7 giugno ha appunto dichiarato illegittima la norma, in quanto si tratta di una materia di competenza regionale.  I giudici delle leggi hanno dichiarato illegittimo l’articolo 19, comma 4, della manovra, che prevedeva “l’obbligatoria ed immediata costituzione di istituti comprensivi, mediante l’aggregazione della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e di quella secondaria di primo grado, con la conseguente soppressione delle istituzioni scolastiche costituite separatamente”, e la definizione della “soglia numerica di mille alunni che gli istituti comprensivi devono raggiungere per acquisire l’autonomia”; soglia ridotta a 500 per le scuole situate nelle piccole isole, nei comuni montani e nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche. Il carattere di intervento di dettaglio nel dimensionamento della rete scolastica cassato dalla Consulta emerge, con ancor maggiore evidenza, dalla parte della norma relativa alla soglia minima di alunni che gli istituti comprensivi devono raggiungere per ottenere l’autonomia: in tal modo, secondo i giudici, lo Stato stabilisce alcune soglie rigide le quali escludono in toto le regioni da qualsiasi possibilità di decisione, imponendo un dato numerico preciso sul quale le regioni non possono in alcun modo interloquire. La Corte dunque, pur riconoscendo che la disposizione persegue “evidenti finalità di contenimento della spesa pubblica”, non può far altro che ribadire, citando la sua precedente sentenza n. 326 del 2010, che “anche tale titolo consente allo Stato soltanto di dettare principi fondamentali, e non anche norme di dettaglio”:  “norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali”, affermava la Consulta nel 2010, “possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi”.


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