In Italia la spesa per il welfare è aumentata del 58% in 16 anni. Si è infatti passati dai 130 miliardi del 1992 ai 295 miliardi del 2008. Nello stesso periodo la spesa pro capite è cresciuta da 2.435 euro a 4.948 (+48%). Si tratta di numeri drammatici, che da soli spiegano perché tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 20 anni si sono dovuti porre il problema della riforma della previdenza. Tema quanto mai impopolare, sempre affrontato con titubanze e timori. Nessuno ha avuto il coraggio di proporre una soluzione valida una volta per tutte, ma più o meno tutti hanno proposto piccoli o grandi aggiustamenti. Il governo Berlusconi lo ha fatto con la manovra estiva, che proprio venerdì scorso ha trovato la sua circolare esplicativa. Le modifiche più importanti sono: l’aggiornamento triennale a partire dal 2015 dei requisiti anagrafici sulla base dell’incremento della speranza di vita, l’allungamento delle finestre di uscita dal lavoro; l’innalzamento a 65 anni dell’età di pensionamento delle donne del pubblico impiego. Con la prima revisione si allungherà la permanenza al lavoro di due o tre mesi ogni tre anni. Con la seconda si costringono i dipendenti e autonomi a lavorare qualche mese in più (senza alcuni benefici sull’assegno pensionistico) prima di poter incassare l’assegno pensionistico. Con la terza si viene a creare un gradone, per le donne del pubblico impiego, in ossequio a disposizioni comunitarie. Inoltre si è previsto un deciso colpo di acceleratore in materia di lotta ai falsi invalidi, che già nei primi tre mesi del 2010 ha consentito di tagliare 17 mila pensioni di invalidità o di accompagnamento: di questo passo entro fine anno si potrebbe risparmiare più di un miliardo di euro. Ma non c’è nessun dubbio che tra pochi anni ci sarà l’esigenza di una ulteriore riforma delle pensioni. Il problema fondamentale è che nessun governo ha il coraggio di passare in modo esplicito dalla logica dei diritti acquisiti a quella dei diritti sostenibili. In questo modo però si viene a creare uno squilibrio tra le generazioni che sono già andate in pensione o sono vicine alla soglia e i giovani che saranno costretti a versare contributi previdenziali in misura sempre maggiore con la prospettiva di ricevere assegni sempre più modesti, un meccanismo perverso necessario per sovvenzionare i trattamenti di chi li ha preceduti e ha versato meno di quanto si aspetta di ricevere. Uno squilibrio che, in tempi di vacche magre, non può reggere a lungo.
Pensioni, ultimo lifting
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