Metropoli senza «appeal»

Fonte: Il Sole 24 Ore

Charles Tiebout era un economista e geografo noto per la sua teoria del voting by feet secondo la quale la qualità della vita di una città la si poteva stimare guardando al numero di persone che vi andava ad abitare o, viceversa, che l’abbandonava. Come a dire: un voto (positivo o negativo) dato con i piedi, con l’andarci o il fuggirne. Una soluzione alternativa rispetto al voto amministrativo espresso dall’elettore con l’intento di premiare o punire lo schieramento che risponde meglio o peggio alle sue esigenze. Tale modello, che presuppone soggetti free rider, ben informati, è forse applicabile alla realtà anglosassone, mentre trova più resistenze in altri paesi, Italia compresa, dove la mobilità residenziale è più modesta e inibita spesso da variabili quali l’identità con il contesto territoriale o l’attaccamento alla famiglia. Ciononostante l’analisi di alcuni dati Istat sui flussi migratori (iscritti e cancellati alle anagrafi comunali) per cambio di residenza (entro i confini nazionali o da e per l’estero) negli ultimi anni permette di individuare alcuni trend di fondo sul possibile rapporto tra cambio di residenza, livelli di benessere, trasformazioni urbane e ruolo della cultura.

I saldi
In Italia ogni anno oltre un milione di residenti cambia comune di residenza spostandosi in un altro. Si va dall’1,1 milioni del 1995 all’1,3 milioni del 2010 (il 2% circa della popolazione). Quanto agli scambi con l’estero, si passa dai quasi 100mila arrivi del 1995 agli oltre 440mila del 2010 e, sul lato “partenze”, da quota 43mila a 68mila. Non tutti i trasferimenti sono spontanei e dettati dalla ricerca di una migliore qualità della vita: le motivazioni possono essere di natura familiare, lavorativa, sanitaria, ma già le ultime due richiamano livelli di vivibilità superiori (per opportunità e infrastrutture) presenti in alcuni territori piuttosto che altri.
Limitando l’analisi ai capoluoghi di provincia, il dato più rilevante è che le persone che lasciano la città per andare a stare in provincia sono assai di più di quelle che seguono il percorso inverso. Tale tendenza in uscita (che ha raggiunto i livelli più alti a metà del decennio 2000-2010) vale, in misura assai più contenuta, anche per quanto concerne i saldi con altre province della stessa regione, ed è solo in parte compensata dalle entrate di individui provenienti da altre regioni italiane: entrate che comunque negli ultimi anni hanno determinato un aumento del saldo positivo. A ribaltare la situazione è il flusso degli ingressi dall’estero che a partire dal 2007 si stabilizza su valori particolarmente elevati.
La tendenza delle famiglie a lasciare la città per la provincia è ormai piuttosto consolidata ed è connessa al fenomeno dello sprawl, cioè il crescente processo di urbanizzazione dei comuni appartenenti alle varie corone delle aree metropolitane o della provincia di riferimento. Questo fenomeno non comporta la cosiddetta morte delle città, ma semplicemente un loro diverso uso da parte di pendolari e city users. Tutte le dieci metropoli italiane sono interessate da questi fenomeni. Sommando i saldi dal 2002 al 2010 per avere una visione più completa, emerge che Roma vede un saldo negativo con la provincia di oltre 76mila unità, Milano di quasi 68mila, Torino di 43mila. Ma anche molte città medie e piccole perdono compattezza.
In Italia solo 27 capoluoghi su 110 presentano un saldo positivo nello scambio di residenze con la provincia di riferimento. E se consideriamo la mobilità in entrata e uscita non solo dalla provincia capoluogo ma anche da altre province della stessa regione o di regioni diverse, sono 34 i capoluoghi con un saldo positivo contro i 76 che “chiudono” in negativo.

Al Sud
A non attrarre popolazione esterna sono soprattutto realtà meridionali: è ipotizzabile che proprio la scarsa qualità della vita nel Sud – evidenziata anche dalle indagini annuali del Sole 24 ore – sia la causa di questo saldo negativo. A Napoli il saldo negativo riguardante il totale dei trasferimenti interni all’Italia supera gli 83mila casi.
Certo, inserendo i valori riguardanti gli iscritti e i cancellati con l’estero (prevalentemente gli immigrati) il quadro cambia: scendono infatti a 27 i capoluoghi, e tutti al Sud, che mostrano un saldo finale negativo. Dunque gli stranieri compensano nettamente le dinamiche negative interne proprie delle città. Una compensazione che avviene anche sul fronte del saldo naturale, poiché gli stranieri contribuiscono non poco alla natalità.
Compatibilmente con le peculiarità locali, quello che sembra emergere è uno scenario contrassegnato da un cambio di popolazione nella città maggiori, dove problemi di costo della vita, scarsa vivibilità, inquinamento determinano un processo di sub-urbanizzazione e il formarsi di vuoti riempiti dalle popolazioni meno abbienti, immigrati in particolare. Nelle realtà urbane di più modeste dimensioni è invece ancora riscontrabile una capacità di attrazione o comunque di limitazione della fuoriuscita degli abitanti in direzione della provincia.

La sfida della trasformazione
Bisognerà capire se questa tenuta sia stabile nel tempo o quanto anche le città medio-piccole risentano del processo di cambiamento. I dati sembrerebbero proprio mostrare una crescente debolezza anche dei centri medio-piccoli nel trattenere persone. Se così fosse, un Paese come l’Italia, storicamente caratterizzato da campanilismi, da identità territoriali forti e radicate si troverebbe di fronte a svolte epocali nel modo di concepire l’attaccamento al territorio, l’organizzazione e la compattezza del tessuto urbano, la partecipazione dei cittadini.
In questo quadro alcuni temi assumono una rilevanza particolare. Ad esempio la salvaguardia del patrimonio storico e simbolico legato ai luoghi nelle sue forme più riconosciute come nelle sue tracce più fini. Una città che sta mutando rapidamente pelle nel centro storico, in periferia, nei vuoti e nelle aree di riconversione, dovrebbe costituire una sorta di “museo a cielo aperto”, una sorta di insieme di testimonianze architettoniche in grado di entrare in relazione con le innumerevoli incursioni culturali che la attraversano, con i suoi abitanti e i suoi visitatori. Educare le persone a guardare la città nei suoi interstizi, a capirne l’evoluzione, rappresenta un momento fondamentale di emancipazione di un’intera collettività anche in termini di possibile miglioramento della qualità della vita a fronte delle trasformazioni in atto. È altresì un’occasione straordinaria per promuovere la fantasia e la creatività artistica, capaci di cucire mondi apparentemente distinti e lontani.

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