Lavoro flessibile, sfida decisiva

Fonte: Italia Oggi

Enrico Giovannini, spazientito, ha lanciato una sorta di ultimatum: o si trova un accordo per l’Expo entro il 15 settembre o interviene il governo. Un altro rinvio, esami di riparazione, nemmeno fossimo a scuola. D’altronde, il viavai di sindacati nell’ufficio del ministro non ha mostrato altro che le solite divisioni e l’eterna litania dei non possumus. Sperimentare «la flessibilità buona», come la chiama lo stesso Giovannini, per un periodo consistente, ma limitato? Susanna Camusso alza il libretto dei diritti come fosse quello rosso di Mao. Raffaele Bonanni contrappone la busta paga: flessibili sì, ma con salario più alto; e vuole coinvolgere tutto l’ambaradan delle istituzioni territoriali. Entrambi hanno le loro ragioni, fanno un mestiere difficile in tempi di crisi, ma entrambi sembrano accomunati da una preoccupazione: non cambiare nulla o, se si è proprio costretti, il meno possibile, rilanciando la palla sempre in avanti. Come prescrive il manuale del perfetto conservatore

L’Ocse ha appena pubblicato il suo rapporto dal quale emerge che esiste un problema molto serio di disoccupazione, più in Europa e meno negli Stati Uniti. Ovunque i giovani sono particolarmente vulnerabili, anche se la loro è una emergenza strutturale, di medio periodo, mentre sul piano congiunturale il problema riguarda i lavoratori adulti con basso livello professionale, i quali, una volta espulsi, difficilmente saranno reimpiegati. Se per i giovani il dilemma è precariato o disoccupazione, per gli altri non c’è spazio nemmeno a tempo determinato. L’Ocse mostra anche quanto sia diversa la situazione da Paese a Paese e questo dipende dalle specifiche condizioni del mercato del lavoro, sottolinea Stefano Scarpetta, direttore per lavoro e affari sociali che ha firmato il rapporto.

Per capire come sono andate le cose dall’inizio della crisi a oggi prendiamo il jobs gap, cioè la differenza tra l’occupazione odierna e quella potenziale stimata dall’Ocse. Tra i grandi paesi la situazione peggiore è in Spagna, la migliore in Germania. L’Italia sta in mezzo, con una particolare sofferenza tra i giovani e i lavoratori generici. Particolarmente allarmante è il livello dei Neet. cioè dei ragazzi che non studiano e non lavorano, ormai arrivati a uno su cinque. In Germania, invece, il tasso disoccupazione tende a scendere sotto i cinque punti (siamo ormai al pieno impiego) e quello dei giovani è di poco superiore a sette. Come mai?

Ha aiutato senza dubbio la rapidissima ripresa dopo la recessione del 2008-2009. Ma non soltanto. Anche se la via maestra è lo sviluppo e la fonte primaria è l’impresa, e anche se, come si è più volte scritto, i tedeschi hanno saputo trarre beneficio dalla moneta unica anche a spese di altri membri dell’eurozona, bisogna tener conto delle politiche del lavoro. Dieci anni fa la disoccupazione giovanile era molto alta, poi il «patto per la formazione» tra imprese e lavoro ha creato quel che viene chiamato il sistema duale, che consente ai giovani di imparare il mestiere direttamente in azienda.

«Oggi ne raccogliamo i frutti», spiega Ursula von der Leyen, la ministro del Lavoro, «un ragazzo su due segue questo percorso di formazione e le imprese hanno così un serbatoio di personale specializzato». Non è precluso nulla, nemmeno di poter studiare per l’università, ma i ragazzi che fanno parte di questo percorso non sono più disoccupati. Il crollo statistico dei senza lavoro non è una illusione o una finzione contabile, ma un diverso modo di affrontare il rapporto con la formazione e l’istruzione. Non la panacea, dunque, bensì un meccanismo prezioso anche per il Mittelstand, le imprese di piccole e medie dimensioni che fanno il nerbo del made in Germany.

Ogni Paese è diverso e non si può pensare di copiare gli altri, tuttavia quella tedesca resta l’esperienza più interessante finora realizzata. Soprattutto perché accompagnata da una riforma della scuola, potenziando gli istituti tecnici e professionali e l’insegnamento scientifico, un passo non scontato per un Paese che ha privilegiato a lungo la cultura umanistica. Naturalmente, c’è sempre la via maestra, cioè la ripresa economica, ma anche in tal caso un ingrediente fondamentale è un mercato del lavoro in grado di rispondere, come una molla caricata pronta a scattare al momento opportuno. La «flessibilità buona», insomma, alla Giovannini. E qui s’innesca l’operazione Expo 2015.

Con il decreto del fare all’esame del parlamento, il governo Letta ha introdotto maggiore flessibilità per le assunzioni a termine, quelle a cui le imprese impegnate per Expo (direttamente o indirettamente) faranno maggior ricorso nel prossimo triennio. Confindustria vorrebbe di più: la possibilità di stipulare contratti a termine senza causale specifica, rinnovabili fino a 36 mesi con brevissime interruzioni. I sindacati si oppongono e vorrebbero che fosse la contrattazione (anche aziendale) a definire le regole, per non intensificare il precariato. La maggioranza è a sua volta divisa: il Pdl è a favore di una liberalizzazione generalizzata, il Pd sta con i sindacati, Scelta Civica ha proposto di sperimentare un nuovo tipo di contratto a tempo indeterminato, ma rescindibile dietro il pagamento di una contenuta indennità.

A chi lamenta che l’Italia avrebbe il record della flessibilità, Maurizio Ferrera, professore all’Università di Milano, ricorda che altrove esistono persino contratti a zero ore, nei quali a fronte di una totale disponibilità dei lavoratori le imprese non garantiscono neppure un’ora di salario. È vero che in Italia permangono problemi seri, come l’assistenza sociale, la base retributiva più bassa della media europea, e soprattutto la formazione. Ma una cosa è colmare il divario, tutt’altra rifiutare per principio quella flessibilità (in entrata, in uscita, in fabbrica e nell’ufficio) ormai connaturata al lavoro in questa epoca storica. L’elogio del posto fisso è il vessillo della conservazione. Cosa uscirà dalla conversione in legge del decreto e dall’accordo sull’Expo rappresenta, dunque, una cartina di tornasole. E conterà, agli effetti del giudizio sull’Italia, tanto quanto lo spread e il debito pubblico. Anzi, in teoria dovrebbe contare ancor di più, perché debito e tassi sono una fotografia del passato, il lavoro è l’ipoteca sul futuro.

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