Ma importa a qualcuno, della montagna italiana? Della gente che ci vive, ci lavora, ci muore? Pare di no. L’ultima conferma è nella Finanziaria. Non è facile, per uno come il presidente della comunità montana di Asiago Lucio Spagnolo, capire i tagli. Prendeva 237 euro e 50 cent netti al mese: aboliti. Come le indennità di tutti i suoi colleghi. In compenso, in extremis, una manina ha ripristinato i gettoni per consiglieri circoscrizionali. I quali, in città come Palermo, arrivano a prenderne, di euro, 900. Misteri della politica. Misteri delle clientele. Che dovesse essere fatto un repulisti nel mondo delle comunità montane è fuori discussione. L’organismo nato nel 1971 per arginare l’abbandono degli antichi borghi e la crisi progressiva della montagna, che costituisce il 54% del territorio italiano, aveva via via subito una deriva, per ragioni di bottega partitica, che a un certo punto sembrava inarrestabile. La necessità di distribuire sempre nuove poltrone, sempre nuove cariche, sempre nuove prebende, aveva portato le comunità, gonfia gonfia, a diventare 356. Un numero abnorme, con situazioni abnormi. Come quella della Sardegna, arrivata ad avere 25 enti, alcuni dei quali stupefacenti, tipo la «Comunità montana Riviera di Gallura». O quella della Puglia che, nonostante sia la regione più pianeggiante, era riuscita a dar vita a 6 comunità (compresa quella leggendaria delle Murge Tarantine dove spiccava il caso di Palagiano: 39 metri sul mare) e a guadagnare contributi erariali 14 volte più alti, in rapporto agli ettari, di quelli del Piemonte. O ancora quella della Calabria, che nel pieno delle polemiche sui costi della politica si avventurò a inserire tra le comunità montane 19 nuovi comuni tra i quali Bova Marina, Cassano allo Jonio o Monasterace. Tutti e tre sul mare. Insomma, non poteva andare avanti così. Tanto più che per distribuire soldi a pioggia anche ai furbetti, veniva sottratto denaro alla montagna vera. Quella dei paesini abbandonati. Quella dove ogni anno si chiudono scuole per mancanza di alunni. Quella dove le foreste («Anche se in certi casi c’è un risvolto paradossalmente positivo visti i guasti idrogeologici causati dalla distruzione insensata dei boschi», spiega il professor Marco Borghetti) si sono divorate negli ultimi 20 anni secondo i parametri Fao un milione e mezzo di ettari di terreno. Insomma: bisognava buttare via l’acqua sporca proprio per salvare il bambino. È stato fatto il contrario. Il guaio è che il Palazzo, incapace di eliminare le province (Margaret Thatcher le 45 Contee metropolitane britanniche le eliminò nel 1985 tutte in un colpo solo) e metter ordine dove i tagli avrebbero comportato dolorose emorragie di consenso elettorale, si è a mano a mano convinto che quello poteva essere il boccone da offrire alla plebe arrabbiata per placare le sue ire: le comunità montane. Non solo quelle ridicole e indecenti: tutte. Anche quelle che funzionavano. Un esempio? Quella in Val Sabbia. La quale, come abbiamo già spiegato, ha allestito un’anagrafe e un ufficio Ici unici per tutti i suoi 25 comuni. Li ha messi tutti in rete. Stipendia un paio di funzionari-jolly che girano di municipio in municipio perché i più piccoli non possono permettersi un segretario comunale. Tiene in ordine le strade. Ha elaborato i piani regolatori di ciascuno. Ha dimostrato come l’unione può far la forza dando l’appalto per il gas solo a chi si impegnava a portare le condutture anche nelle contrade. E così via. Un altro? Quella del-l’Altopiano di Asiago, la terra dei mitici «Sieben alten Komoinen» vicentini, i «Sette antichi Comuni fratelli cari» le cui regole per i boschi e i pascoli sono in vigore dal IV secolo d.C. Uno straordinario esempio di democrazia dal basso. Dove la comunità montana (con 9 persone, che oltre a fare tutti progetti hanno messo su anche lo sportello unico per le imprese) gestisce 470 chilometri quadrati (sette volte San Marino) di prati e foreste, otto comuni per un totale di 60 frazioni, 392 chilometri di strade, 86 malghe da alpeggio (il più grande bacino europeo) e l’immenso patrimonio storico della Grande Guerra, compresa la zona sacra dell’Ortigara. Un lavoro essenziale. Tanto più in anni in cui, via via che la faticosissima agricoltura di montagna viene abbandonata, i boschi stanno divorandosi il 6% l’anno di pascoli ed al peg gi. Col risultato che già 10.260 ettari su 16.200 del comune di Asiago sono ormai coperti dagli alberi (soprattutto dall’infestante pino mugo) anche là dove i nostri nonni si erano spaccati la schiena, estirpando radici e cavando pietre, per strappare alla terra fazzoletti di terra coltivabile. Ma davvero il risanamento statale imponeva l’abolizione dello stipendio del presidente, che avendo già la paga da maestro (mica da super-manager: da maestro elementare) guadagnava 2.850 netti l’anno cioè quei 237 euro e 50 cent netti al mese di cui dicevamo, nonostante abbia contato l’anno scorso 379 appuntamenti in giro per cantieri, uffici pubblici, riunioni con gli assessori provinciali e regionali senza manco avere il cellulare pagato? Davvero il riordino delle pubbliche casse esigeva l’amputazione della busta paga della sua vice, pari a 118 euro e 75 centesimi netti mensili? Dura da credere. Tanto più che contemporaneamente, di deroga in deroga, sono rientrati, di fatto, tutta una serie di altri tagli. Dal taglio «vero» all’indennità dei parlamentari a quello, denunciato da Tito Boeri, ai gettoni di presenza dei consiglieri circoscrizionali. Quelli finiti nella bufera quando saltò fuori che a Messina si erano presentati 1755 candidati obbligando a stampare una scheda elettorale larga un metro e alta 48,3 centimetri. O quando emerse che a Palermo ognuno dei 16 «deputatini» dei consigli di quartiere guadagnava intorno ai 1200 euro netti e un presidente prendeva 4750 euro mensili e aveva un’auto blu con l’autista. Dovevano saltare tutti, i consigli di circoscrizione. Finché non è stato infilato un emendamento che salvava quelli delle città metropolitane. Di fatto quasi tutti. Di più, venivano salvati (sia pure ridotti: per ora…) anche i gettoni di presenza. Una disparità inaccettabile, secondo il presidente nazionale dell’Uncem (l’unione delle comunità) Enrico Borghi. Che presa carta e penna ha scritto a Napolitano denunciando come l’abolizione di ogni indennità fosse «una misura che nulla incide sotto il profilo economico per le finanze statali ma pesantemente incide sul morale e sulla dignità di tantissimi amministratori locali onesti, competenti e appassionati che sono disseminati sui territori montani della nostra Italia». Parole giuste. Tanto più che le comunità montane, grazie alla scrematura delle regioni, erano già state al centro dell’unico vero taglio visto in questi anni: da 356 a 180 enti. Più una rasoiata del 66% alle poltrone. Più un’altra del 50% nella Finanziaria 2008 agli stipendi. Più il prosciugamento totale delle risorse, scese dal-l’ultima Finanziaria di Prodi all’ultima di Tremonti da 180 milioni di euro a 0: zero. Le Regioni pensano che quelle rimaste siano indispensabili? Paghino loro. Con che soldi? Si arrangino: il Fondo nazionale per la montagna (dato alle singole regioni) è pari per il 2010 a 36 milioni di euro: un settimo del buco annuale della Tirrenia. Nonostante la montagna italiana produca il 16,7% del Pil nazionale (203 miliardi) e ospiti un quinto della popolazione. Vogliamo dirlo? La verità è che la montagna e i montanari, le loro asprezze, i loro silenzi, i loro boschi, i loro valori, sono fuori moda. Sempre più estranei a una società caciarona, edonista, teledipendente, discotecara, grandefratellesca. Dove tutto deve essere «facile». Tutto apparenza. Tutto consumato in fretta. Tutto messo a nudo sulle spiagge. Sulle barche. Sulle copertine dei giornali popolari. Alcide De Gasperi, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Karol Wojtyla andavano in vacanza in montagna. Tra le vette. L’avete mai vista, una foto di Silvio Berlusconi in montagna? E di Gianfranco Fini? E di tutti gli altri, salvo eccezioni? Oddio, il maglione di lana!!!
La montagna celebrata e dimenticata da tutti
La manovra
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