Beni culturali privatizzati per utilizzarli al meglio

Fonte: Il Sole 24 Ore

Le previsioni economiche lo indicano tutte senza alcun margine di errore: nei prossimi anni la crescita proseguirà robusta nelle cosiddette economie emergenti. Nel 2030, secondo Goldman Sachs, una banca americana, quella cinese sarà la più grande economia al mondo con un pil annuo di 31.800 miliardi di dollari americani, quella indiana la terza con circa 8 mila miliardi di dollari e l’economia brasiliana la quarta del mondo con 5.862 miliardi di dollari prodotti all’anno. Soltanto sesta al mondo con 4.730 miliardi di dollari di pil l’economia russa. La distribuzione della ricchezza nel mondo sta cambiando rapidamente di geografia ed è bene adattare le strategie di offerta per farsi trovare preparati. Un monito che vale soprattutto per l’Italia che nel 2030 sarà l’undicesima economia del globo e che deve farsi la punta al cervello per valorizzare al meglio il patrimonio di cui dispone. Come quello culturale, il principale al mondo fatto di musei, chiese e basiliche e città d’arte. Un patrimonio che deve essere organizzato per essere messo a disposizione della massa dei turisti globali pronti a fare «almeno una volta nella vita» un tour italico per immergersi nella storia della civiltà umana. Le esperienze degli ultimi decenni certificano che le gestione statalista dei beni culturali serve soltanto ad alcuni stakeholders: dipendenti pubblici e sindacati di settore. La qualità del servizio rimane lontana dagli standard che domanda il turista globale di oggi, figuriamoci quello prossimo venturo che sarà ipertecnologico e iperesigente abituato a degli standard di servizio mondiali. Un turista che sogna di avere un’unica interfaccia alla Google o alla Facebook con cui acquistare tutto quello che serve al suo viaggio e che invece nel caso italiano si ritrova con musei a fatica sul web e la carta che imperversa ovunque. Per valorizzare questo enorme patrimonio culturale serve una discontinuità vera, una privatizzazione massiva dello stesso patrimonio per affidarlo in concessione ai privati e premiandoli per ogni servizio innovativo che saranno capaci di inventare per aumentare il mercato. Ben pensate aste pubbliche potrebbero affidare in concessione per 30 o 50 anni i beni culturali, risolvendo almeno in parte il problema del debito pubblico, perché lo Stato incasserebbe diversi miliardi di euro dalla vendita delle concessioni e avrebbe anche di un introito annuo come canone percentuale sui guadagni dei privati. Affidare ai privati la gestione dei beni culturali italiani è la mossa più intelligente che si può pensare per posizionarli nel business emergente del prossimo turismo globale che sarà il più esigente della storia umana.

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