Alleanze a ostacoli per 5mila Comuni costretti a «sposarsi»

Fonte: Il Sole 24Ore

«A Cerlongo si parla come a Guidizzolo o a Ceresara», più che come a Goito, informava l’anno scorso la Gazzetta di Mantova per spiegare una complicata vicenda (per chi non è del posto) di frazioni intenzionate a cambiare Comune, e di Comuni incerti sulla Provincia a cui appartenere «sul crinale fra Mantova e Brescia». Con la crisi del debito sovrano e gli occhi del mondo puntati sui rendimenti dei nostri titoli di Stato, campanilismi come questi vanno consegnati alle tradizioni locali. La manovra-bis pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» di venerdì punta dritto sulla “semplificazione” della Pubblica amministrazione locale, imponendo un’articolata ricetta di quasi-fusioni fra i Comuni sotto i mille abitanti e di gestioni associate obbligatorie per quelli che superano i mille residenti ma non arrivano a 5mila. Obiettivo dichiarato, tagliare il numero di amministratori locali, con un complesso di misure che cancella 32mila posti a partire dal prossimo turno amministrativo, e raggiungere economie di scala che facciano risparmiare nella gestione dei servizi pubblici. Ce la farà? A giudicare dalle prime reazioni, tra minacce di ricorsi alla Corte costituzionale e manifestazioni che praticamente in tutte le Regioni hanno visto sfilare i sindaci anche in pieno agosto, fino al centinaio di primi cittadini piemontesi che venerdì sono saliti a Pian del Re per “salutare” i vertici leghisti impegnati nel rito dell’ampolla. A ostacolare il cammino delle nuove regole verso l’applicazione concreta, però, non sono tanto le questioni di Montecchi e Capuleti che popolano il territorio italiano, quanto piuttosto il fatto che la “semplificazione” è nell’obiettivo della legge ma non nel meccanismo pensato per attuarla. Nella giostra di Unioni e associazioni obbligatorie entrano 5.683 Comuni, il 70,2% del totale, cui si aggiungono 1.192 enti fra 5mila e 10mila abitanti che perderanno due consiglieri. Se gli abitanti del Comune non arrivano a quota mille, il suo destino è quello di confluire in un’Unione di almeno 5mila abitanti, soglia che scende a 3mila quando l’ente è appartenuto a una Comunità montana. L’Unione, soggetta al Patto di stabilità dal 2014, deve gestire tutte le attività e i servizi pubblici locali, fare il bilancio e in pratica assorbire il ruolo prima svolto singolarmente dai Comuni partecipanti, i quali perdono la Giunta e tre consiglieri comunali e si limita ai poteri d’indirizzo nei confronti dell’Unione. Il cambio di rotta rispetto alla gestione attuale è drastico, come dimostra la complessità della fase di passaggio: i Comuni devono decidere subito a quali vicini unirsi, e in sei mesi devono deliberare in consiglio e inviare alla propria Regione la proposta di aggregazione. La Regione, dopo aver sciolto il probabile rebus di aggregazioni che le arriva dal territorio, istituisce l’ordinamento delle Unioni, che iniziano a scattare dalle prime elezioni successive al 13 agosto del 2012: quando il primo Comune arriva al voto, con un effetto domino fa decadere le Giunte anche negli altri Comuni dell’Unione, dove quindi gli assessori si vedrebbero tagliare il mandato per le elezioni intervenute in un altro Comune. Un passaggio ad alto rischio, in cui il contenzioso è pressoché certo e gli esiti per nulla scontati. Ammesso che lo scoglio si superi, con le nuove Unioni a regime la legge dello Stato potrebbe decidere che alle elezioni successive si voti sia per il consiglio del Comune sia per quello dell’Unione, che in prima battuta è invece composto dai sindaci e da due consiglieri per ogni ente partecipante. Un po’ più semplice il percorso per i Comuni che superano i mille residenti ma non i 5mila. In questo caso bisogna avviare entro fine 2012 la gestione associata di tutte le «funzioni fondamentali», dalla burocrazia alla Polizia locale, dalla viabilità ai servizi sociali, creando alleanze che contino almeno 10mila amministrati. Anche in questo caso i punti interrogativi non mancano: a voler seguire la lettera della legge, per esempio, i Comuni dovrebbero associare il 70% dell’amministrazione generale, con una divisione che in termini pratici si fatica a comprendere. L’esperienza, poi, mostra che le gestioni associate funzionano bene in alcuni settori, Polizia locale in primis, ma spesso zoppicano quando si tratta di mettere insieme l’amministrazione generale, dagli uffici tributi all’anagrafe. Dalle prossime elezioni, anche questi enti dovranno alleggerire Giunte e consigli (i dettagli nel grafico qui sopra), e lo stesso accadrà ai consigli dei Comuni fra 5mila e 10mila abitanti. L’obiettivo di questo enorme giro di giostra, naturalmente, sono i risparmi. Quelli sui «costi della politica», in realtà, sono molto teorici, un po’ perché gettoni e indennità nei piccoli Comuni sono ultraleggere (e spesso, soprattutto i consiglieri, vi rinunciano), un po’ perché le nuove Unioni che sorgeranno determineranno nuovi posti e nuove buste paga, più “ricche” di quelle che vanno a sostituire. Più seria è la questione della razionalizzazione per superare un’architettura amministrativa troppo frastagliata per essere efficiente. Il compito, però, non è semplice. Per svolgerlo occorre intervenire sulle strutture degli uffici e sui punti di erogazione dei servizi, ma sul punto la nuova norma non si dilunga, preferendo concentrarsi su consigli, giunte e regole politiche. Forse perché parlare di 32mila posti da “politico locale” tagliati è più efficace. Anche se non si risparmia un euro.

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