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Mini-enti, associazionismo flop
Dalle ricognizioni dei prefetti emerge il fallimento dell'obbligo di mettere insieme le funzioni

Le gestioni associate comunali sono un flop. Dopo la Corte dei conti, anche il ministero dell’interno tira le somme della riforma avviata nel 2010 per aggregare i piccoli comuni attraverso l’obbligo di conferire le loro funzioni fondamentali a unioni o convenzioni. E conferma che il bilancio è pesantemente negativo, a causa di un lungo elenco di problematiche, puntualmente elencate in un documento presentato alla Conferenza stato-città e autonomie locali prima della pausa estiva. L’analisi è demoralizzante proprio perché molto accurata, essendo stata realizzata grazie al lavoro di ricognizione sul territorio svolto dalle prefetture, che hanno raccolto le segnalazioni di chi si è cimentato sul campo nella costruzione dei nuovi modelli. Le difficoltà riguardano quattro principali aspetti: geografico, organizzativo, politico e normativo. Sotto il primo profilo, pesa la complessa morfologia dei territori, con numerosi casi di comuni isolati e talora addirittura interclusi, ossia confinanti solo con centri maggiori, non soggetti agli obblighi e poco inclini a collaborare su base volontaria.

Sul piano organizzativo emergono criticità nella suddivisione delle risorse, degli oneri e del personale dei singoli comuni. Specie quest’ultimo aspetto è molto grave, visti i diffusi problemi concernenti la scarsità delle unità disponibili, l’età avanzata delle stesse, la mancanza di effettiva propensione all’innovazione (soprattutto a causa dei dubbi sulla possibilità di conservare le indennità acquisite nel comune di appartenenza) e di adeguata preparazione tecnico-amministrativa.

Dal punto di vista politico, si è registrata la tendenza ad associarsi per affinità politica e non territoriale, nonché il perdurante timore di taluni enti di subire un sostanziale svuotamento della funzione identitaria delle proprie realtà territoriali. È, inoltre, emersa, in taluni territori, la scarsa propensione di comuni obbligati finanziariamente virtuosi ad associarsi con enti in dissesto.

Infine, la stessa normativa che disciplina la materia risulta assai poco chiara, per quanto concerne, in particolare, l’esatta perimetrazione delle funzioni da associare. Alcune di esse, infatti, risultano anche incluse negli ambiti territoriali ottimali la cui istituzione è demandata alle regioni, ovvero conferite alle neo costituite città metropolitane. Se questa è la diagnosi, la cura non può che prevedere un radicale ripensamento di tutta la legislazione statale che si è stratificata in questi anni, ivi compresa le recente legge Delrio, il cui intervento non è certo stato risolutivo. Come già evidenziato, tuttavia, fra gli addetti ai lavori (in primis, fra i sindaci) ci sono ricette diverse per uscire dall’impasse: alcuni predicano maggiore flessibilità e spingono per il potenziamento degli incentivi, altri sono favorevoli ad un rafforzamento dei vincoli (e delle relative sanzioni) con l’obiettivo di medio termine delle fusioni.

Tale varietà di schemi tattici si riflette anche nella normativa regionale, che il documento del Viminale riassume senza tuttavia riuscire a individuare neppure una linea di indirizzo condivisa. In pratica, ognuno va per la sua strada e i risultati si vedono. Come evidenziato dalla magistratura contabile (si veda la tabella in pagina), le forme associative effettivamente operative sono poche e gestiscono risorse assai limitate, perlopiù trasferite dai comuni associati, spesso con ritardi pesanti che costringono gli enti sovracomunali a un ampio ricorso alle anticipazioni di tesoreria (con annesso pagamento di interessi). In più, esse vengono frequentemente sciolte o cambiano composizione. Difficile, in questo modo, farle funzionare davvero e renderle un volano per conseguire economie di scala e incrementare gli investimenti (e infatti gestiscono quasi solo spesa corrente).

La prossima scadenza al momento è fissata al 31/12/2015, ma un’altra proroga è quasi inevitabile: sarebbe la quinta, quasi un record.


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