Ricostruzioni del dopo terremoto a lezione dalla Sicilia di fine 600

Fonte: Corriere della Sera

Il 6 settembre sono passati 17 mesi dal terremoto dell’Aquila (6 aprile 2009) e ancora non si vede un piano per la ricostruzione della città, per il recupero del centro storico e dei suoi monumenti. Ancora non si sa con quale criterio si procederà alla ricostruzione: cercando di riprodurre il più possibile la città preesistente o lanciando un messaggio costruttivo nuovo, almeno per le parti meno recuperabili? In effetti l’Aquila è anche uscita dal circuito mediatico, dopo i giorni del G8 e dopo l’inaugurazione della città satellite, avvenuta in tempi record. Ma purtroppo le catastrofi nel mondo non si sono arrestate e i media sono stati pieni di immagini da Haiti prima e dal Pakistan poi. Il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, il 22 giugno scorso, durante una visita di giornalisti, ha bruscamente richiamato alla realtà con una affermazione choc: «Se si vuole che questa città rimanga come Pompei, lo si dica». Cialente non contesta che, nell’immediato, si sia provveduto a salvare la popolazione, ma ora si tratta di «salvare la città». In Italia abbiamo avuto nell’ultimo secolo tante storie di terremoti: da Messina ad Avezzano, al Belice, all’Irpinia, al Friuli, in cui si sono potute confrontare diverse storie di ricostruzione, dalle più alle meno efficienti. Ma forse vale la pena di ricordare che dal grande terremoto del 1693, che colpì la Val di Noto in Sicilia, da Scicli a Noto, Ragusa e Modica, con 58.000 morti (si veda L’oro di Busacca di Giuseppe Barone, Sellerio 1998, Palermo), il territorio uscì ricostruito e rinnovato in pochi anni, con piani urbanistici che ci hanno regalato quelle che ancora oggi ammiriamo come città del tardo barocco. Comiso e Biscari, ad esempio, in due anni imposero tempi brevissimi per la rivendicazione delle proprietà e applicarono in modo draconiano l’esproprio per pubblica utilità. La responsabilità della ricostruzione della città di Scicli venne affidata già sette mesi dopo il sisma. Forse possiamo imparare qualcosa da queste storie di trecento anni fa?

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