Per un vero riordino serve più coraggio

Fonte: Il Sole 24 Ore

Arriva il tanto atteso e temuto Patto di stabilità per le società partecipate. Chi lo temeva può probabilmente tirare un sospiro di sollievo, poiché tutto si riduce alla sola richiesta di avere un margine operativo lordo positivo (il Mol è dato dai ricavi meno i costi operativi al lordo degli ammortamenti). Resterà deluso, invece, chi sperava che il Patto fosse l’occasione per rivedere nel loro complesso le regole di finanza pubblica che riguardano le aziende pubbliche. Il requisito del Mol, effettivamente, è debole: il fatto che sia sopra lo zero non protegge la società dai rischi di insolvenza. Restano, infatti, da coprire uscite certe quali le imposte (in particolare l’Irap, che di fatto è una componente del costo del lavoro) e gli interessi passivi, che rappresentano importi molto consistenti per queste aziende. È vero, per contro, che il 20% delle aziende del campione osservato dal Mef risulta sotto la linea di galleggiamento, difficilmente prevedibile se non si disponesse di un database idoneo. E va riconosciuto alla Ragioneria il merito di avere studiato oltre 1.200 società e di avere effettuato un’analisi empirica approfondita prima di arrivare a una decisione. Inoltre è importante l’introduzione del principio per il quale se l’azienda va fuori Patto gli effetti sanzionatori colpiscono anche gli enti che la controllano e che spesso sono i veri responsabili dei cattivi risultati economici. In sostanza, partire con regole stringenti sarebbe stato tecnicamente corretto, ma imprudente in sede di prima applicazione dello strumento: prima di alzare l’asticella è bene vedere come va; successivamente si potrà raffinare lo strumento.

Fin qui il giudizio è positivo. La delusione riguarda invece il fatto che le regole del Patto nascono al di fuori di un generale riassetto delle norme che riguardano gli organismi partecipati e della promessa riforma dei servizi pubblici locali. Visto che il Patto si attende dal 2008, sarebbe stato probabilmente più opportuno inserirlo in un progetto di riordino delle norme di finanza pubblica che riguardano le società e le altre figure giuridiche partecipate dai Comuni. A oggi abbiamo leggi diverse e in parte sovrapposte sulla messa in liquidazione delle aziende, che di fatto non creano le condizioni per raggiungere l’obiettivo, in quanto non affrontano i nodi fiscali e il destino dei posti di lavoro in essere. Ancora, abbiamo un coacervo incomprensibile di vincoli assunzionali che ostacolano di fatto l’agibilità operativa delle aziende e, in certi casi, perfino il perseguimento di obiettivi di legge: come si concilia l’introduzione del porta a porta per la raccolta differenziata con il blocco delle assunzioni? Una riflessione sui vincoli di finanza pubblica è quindi urgente e il Patto era l’occasione di ciò, perché, se inserito in un quadro armonico, può rappresentare la condizione necessaria per “liberarsi” da molti di questi laccioli, secondo uno schema del tipo “se sei entro i limiti del Patto, sei libero di assumere e di operare, altrimenti ti prendi vincoli e sanzioni”. I tempi sono maturi per abbinare rigore finanziario al necessario rispetto della volontà costituzionale sulle società in house. Speriamo che il Patto contribuisca a questo e non diventi, invece, il pretesto per rinviare la questione.

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