Partecipate, mobilità per gestire il riordino

Fonte: Il Sole 24 Ore

La nuova riforma delle partecipate scritta nelle bozze di decreto attuativo della delega Madia atteso a metà gennaio in consiglio dei ministri rilancia le regole sulla mobilità del personale, riproponendo in forma rafforzata un pacchetto di norme che era già stato introdotto dalla legge di stabilità 2014, ma che finora non ha avuto un’applicazione ad ampio raggio anche perché le “razionalizzazioni” scritte nelle ultime manovre si sono rivelate all’acqua di rose. 
La strada, dunque, non è inedita ma cambia il contesto, perché assieme a vincoli più rigidi per la riduzione delle partecipate pubbliche si introducono una serie di obblighi di riduzione degli organici e delle spese di personale, e in questa chiave si inseriscono le norme sulla mobilità che disegnano una situazione a cavallo fra le crisi d’impresa e l’operazione che si sta provando con le Province. La bozza di decreto, infatti, prevede esplicitamente l’applicazione alle società partecipate delle regole su mobilità e cassa integrazione scritte nella legge 223 del 1991 e quelle sugli ammortizzatori sociali introdotte dal decreto legislativo 22 che l’anno scorso ha attuato su questo versante il Jobs act. Il tentativo, insomma, è quello di avvicinare il più possibile le società pubbliche alle aziende private, con tanto di applicazione delle regole sulle crisi d’impresa e della legge fallimentare (come anticipato sul Sole 24 Ore del 2 gennaio). 
A ricordare invece la situazione delle province sono gli obblighi di revisione strutturale degli ambiti di attività e quindi degli organici delle partecipate, soprattutto quando si tratta di aziende a controllo pubblico. Il punto di partenza è rappresentato dall’obbligo per tutte le Pubbliche amministrazioni di scrivere ogni anno il piano di razionalizzazione delle partecipate che deve mettere nel mirino, oltre ai casi già previsti dall’ultima manovra (società doppione, aziende con mini-fatturato, scatole vuote e così via), anche le aziende che operano in rami diversi da quelli rigidamente previsti dal decreto attuativo: servizi di interesse generale, opere pubbliche, servizi strumentali e servizi di committenza. 
A differenza del passato, come previsto dai correttivi della delega approvati in Parlamento, la mancata adozione del piano di razionalizzazione produrrà una sanzione amministrativa, ancora da stabilire negli importi. Non solo, gli enti pubblici proprietari dovranno indicare obiettivi di contenimento dei costi del personale alle loro società controllate, ma sono soprattutto le aziende a dover fissare una programmazione puntuale sul personale. Entro sei mesi dall’entrata in vigore delle nuove regole, infatti, le aziende controllate dalle pubbliche amministrazioni dovranno effettuare «un’analitica e puntuale ricognizione dei propri fabbisogni di personale, anche a tempo determinato», per i tre anni successivi, indicando in modo dettagliato i profili professionali di cui hanno bisogno, e trasmettere il tutto al nuovo organo di controllo sulle partecipate (su cui si veda il Sole 24 Ore di ieri). Le eventuali assunzioni non riportate in questo censimento preventivo saranno impossibili, ma soprattutto l’analisi dei fabbisogni dovrà far emergere anche gli “esuberi” e le “eccedenze” presenti nel personale già in organico. 
Proprio per gestire questo aspetto, che ha rappresentato finora uno degli ostacoli più importanti all’avvio di una semplificazione effettiva nella giungla delle partecipate, intervengono le regole sulla mobilità. In pratica, si riprende il meccanismo dei possibili accordi fra società controllate per lo scambio di personale, a patto che non si superino i confini (in particolare il limite dei 50 chilometri) scritti nel testo unico del pubblico impiego dopo l’intervento del decreto Madia del 2014. Se c’è l’intesa fra le aziende, le mobilità si possono attivare senza l’accordo del lavoratore interessato e dopo una semplice informativa alle rappresentanze sindacali dell’azienda e alle organizzazioni che hanno firmato il contratto collettivo. L’accordo con i sindacati, invece, diventa necessario solo per gli spostamenti che superano i 50 chilometri. Se il meccanismo parte, la società che cede il personale può farsi carico per tre anni del 30% del suo costo, ma se ha risorse in bilancio e senza produrre «oneri per la finanza pubblica»: questa quota, e qui arriva l’unica agevolazione, viene dedotta dall’imponibile su cui si calcolano le imposte sui redditi e l’Irap. 
Viene espressamente esclusa la possibilità che il personale in mobilità possa essere spostato dalla controllata alla pubblica amministrazione proprietaria, ipotesi del resto già ostacolata dal fatto che i dipendenti delle aziende in genere non hanno partecipato a un concorso pubblico: diverso è il caso delle persone che dipendevano dalla Pa e sono poi passate alla partecipata, e che ora possono essere reinternalizzate. Mobilità e reinteralizzazioni, per chiudere il cerchio, diventano la corsia preferenziale per il reclutamento, perché le società che intendono assumere personale senza passare da questi strumenti dovranno motivare la loro scelta. 

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