Il no alle ricapitalizzazioni «salva» i casi più gravi

Fonte: Il Sole 24 Ore

Fra le norme sulle partecipate dettate dal Dl 78/2010 ce ne sono alcune che ancora di importanti chiarimenti interpretativi. In particolare, va definita la portata del blocco delle operazioni straordinarie per le società in perdita dettato dall’articolo 6, comma 19. La norma impone pesanti restrizioni ai flussi finanziari dagli enti proprietari alle partecipate, ma indica anche delle vie d’uscita di cui occorre capire l’ampiezza. Tenuto conto dei principi comunitari in fatto di concorrenza, gli enti (e le società) inseriti nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione non possono più rilasciare garanzie a favore di società partecipate, né effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari o aperture di credito. Dall’enunciazione delle operazioni vietate nascono le prime perplessità: la nozione di «trasferimento straordinario », dovuta all’ampiezza della platea a cui la norma si riferisce, non è precisata dai principi contabili, e l’apertura di credito (definita dall’articolo 1842 del Codice civile) costituisce un contratto che ha natura e contenuti diversi da altri contratti di finanziamento, quali ad esempio il mutuo (articolo 1813 del Codice civile). Le restrizioni agli apporti finanziari da parte degli enti riguardano società partecipate non quotate (con esclusione, dunque, di consorzi, aziende speciali, istituzioni e altre forme associative diverse dalle società) che hanno registrato per tre anni consecutivi perdite di esercizio, oppure che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali. Quest’ultima precisazione, va detto, non sembra centrare l’obiettivo: l’utilizzo di riserve per la copertura di perdite è una procedura contabile che non comporta alcuna ulteriore riduzione dei mezzi propri. Risolvendosi in un adempimento non obbligatorio, essa potrà essere bypassata con il riporto a nuovo della perdita, che determina un semplice rinvio al futuro di ogni decisione in materia. Il punto centrale è però rappresentato dalle eccezioni al divieto di operazioni straordinarie, eccezioni fissate dallo stesso comma 19. La norma fa salva l’applicazione dell’articolo 2447 del Codice civile, che impone la ricapitalizzazione quando il capitale scende sotto la quota minima dei 120mila euro (fissata dall’articolo 2327 del codice). Se si verificano perdite tali da ridurre il capitale sotto questa soglia minima, i soci devono decidere se trasformare o ricapitalizzare la società. Il percorso appare incongruo: prima si deve aspettare che le perdite distruggano il patrimonio, poi si può adottare ogni decisione sulla (misura della) ricapitalizzazione. La previsione non sembra poter interessare le società più grandi, che difficilmente possono erodere il capitale fino a ridurlo a 120mila euro senza prima incorrere nel fallimento, ma offre più di una chance alle realtà più piccole. Un ulteriore annacquamento delle restrizioni finanziarie del comma 19 è rappresentata dalla possibilità di effettuare trasferimenti alle partecipate a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programmi di investimento. La chiusura dello stesso comma, infine, spiega che «per salvaguardare la continuità nella prestazione di servizi di pubblico interesse, a fronte di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico e la sanità (?)» potranno intervenire ulteriori deroghe. Una norma,quest’ultima, che sembra offrire una scialuppa di salvataggio alle società ridotte al punto, per esempio, di non riuscire più a pagare gli stipendi.

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