Dilazionare meglio che ritardare

Fonte: Italia Oggi

Il tema dei ritardi nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni è molto di moda, ma a monte si pone il problema della legittimità delle clausole inserite nei contratti e prima ancora delle clausole previste nei bandi di gara, che contemplano termini di pagamento, che determinano situazioni di grave iniquità. È opportuno pertanto fornire il quadro della normativa applicabile. Il dlgs 9 ottobre 2002 n. 231 è stato adottato in attuazione della Direttiva 2000/35, nel cui preambolo si precisa che «la presente direttiva disciplina tutte le transazioni commerciali a prescindere dal fatto che esse siano effettuate tra imprese pubbliche o private o tra imprese e autorità pubbliche, tenendo conto del fatto che a queste ultime fa capo un volume considerevole di pagamenti alle imprese. Essa pertanto dovrebbe disciplinare anche tutte le transazioni commerciali tra gli appaltatori principali ed i loro fornitori e subappaltatori»; la direttiva precisa inoltre che essa «dovrebbe proibire l’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore. Nel caso in cui un accordo abbia principalmente l’obiettivo di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore, o nel caso in cui l’appaltatore principale imponga ai propri fornitori o subappaltatori termini di pagamento ingiustificati rispetto ai termini di pagamento ad esso concessi, si può ritenere che questi elementi configurino un siffatto abuso». Dalla disciplina comunitaria, in conformità alla quale non può che leggersi la disciplina nazionale, si evince, dunque, che le pubbliche amministrazioni, che operano quali parti di transazioni commerciali, sono vincolate dalla suddetta normativa. Il dlgs 9 ottobre 2002 n. 231 in particolare dispone il decorso automatico degli interessi a beneficio del creditore, «dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento» (art. 4 ), «senza che sia necessaria la costituzione in mora» nonché un tasso di interesse moratorio pari «al saggio d’interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea maggiorato di sette punti percentuali» (art. 5) ed il «diritto al risarcimento dei costi sostenuti per il recupero delle somme non tempestivamente corrispostegli, salva la prova del maggior danno, ove il debitore non dimostri che il ritardo non sia a lui imputabile» (art. 6). L’art. 7 a sua volta ha previsto che: «L’accordo sulla data del pagamento, o sulle conseguenze del ritardato pagamento, è nullo se, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i medesimi, nonché ad ogni altra circostanza, risulti gravemente iniquo in danno del creditore. Si considera, in particolare, gravemente iniquo l’accordo che, senza essere giustificato da ragioni oggettive, abbia come obiettivo principale quello di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore, ovvero l’accordo con il quale l’appaltatore o il subfornitore principale imponga ai propri fornitori o subfornitori termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto ai termini di pagamento ad esso concessi. Il giudice, anche d’ufficio, dichiara la nullità dell’accordo e, avuto riguardo all’interesse del creditore, alla corretta prassi commerciale ed alle altre circostanze di cui al comma 1, applica i termini legali ovvero riconduce ad equità il contenuto dell’accordo medesimo». Ulteriori disposizioni normative hanno previsto che «al fine di evitare ritardi nei pagamenti e la formazione di debiti pregressi, il funzionario che adotta provvedimenti, che comportano impegni di spesa, ha l’obbligo di accertare preventivamente che il programma dei conseguenti pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica; la violazione dell’obbligo di accertamento comporta la responsabilità disciplinare ed amministrativa” (art. 9, comma 2, dl n. 78/2009, conv. in L. n. 102/2009). Si segnalano in materia due importanti interventi giurisprudenziali, che, sotto profili diversi, hanno affrontato puntualmente il tema. Il Consiglio di stato, con sentenza n. 469 del 2 febbraio 2010 ha statuito che la presentazione di un’offerta da parte di un concorrente non implica acquiescenza-accettazione alla sostanziale iniquità delle clausole previste nella lex specialis. Ed ancora che «l’amministrazione pubblica non ha il potere di stabilire unilateralmente le conseguenze del proprio stesso inadempimento contrattuale (come gli interessi moratori o le conseguenze del ritardato pagamento) né potrebbe subordinare la possibilità di partecipare alle gare all’accettazione di clausole aventi simili contenuti, se non a costo di ricadere sotto le sanzioni di invalidità, per iniquità, vessatorietà, mancanza di specifica approvazione a seguito di trattative, sanzioni sopra descritte (in tal senso, Consiglio stato, V, 30 agosto 2005, n. 3892). Non può sostenersi la prevalenza di tali clausole rispetto a quanto previsto dal decreto legislativo di recepimento della direttiva comunitaria: a parte il valore di supremazia della disciplina di derivazione comunitaria, oltre che della normativa nazionale imperativa, vale il principio per cui il contratto obbliga le parti non solo alle regole previste dal medesimo, ma anche al rispetto delle regole imperative e a tutto ciò che deriva dalla legge, dagli usi o dalla equità (artt. 1339, 1419, 1418 e 1374 c.c.). Le norme imperative hanno pertanto un valore anche sostitutivo di quanto previsto in violazione di esse». Conseguentemente è nulla la clausola che preveda regole diverse ed inique rispetto a quanto previsto dalle regole imperative ed automaticamente vengono sostituite ed in sede di esecuzione del contratto potrà essere chiesta la pronuncia della nullità. Corollario di tale interpretazione è che le amministrazioni o si impegnano a pagare nei termini previsti dal legislatore, ovvero devono negoziare con le imprese offerenti i termini di pagamento ed il saggio di interesse per l’eventuale ritardo, con i limiti sopra individuati. Chiamate a pronunciarsi sul punto le sezioni riunite della Corte dei conti hanno suggerito il ricorso alle aggiudicazioni secondo il parametro dell’offerta economicamente più vantaggiosa di cui all’art. 83 dlgs 163/2006 (Corte dei conti, sez. riun, delibera 15 aprile 2010, n. 9). Ed ancora, più recentemente (5 maggio 2010, sentenza n. 2346) il Tribunale piemontese, chiamato a pronunciarsi su un caso in cui l’amministrazione in una clausola del bando di gara si riservava di stabilire in sede di stipulazione del contratto, in accordo con l’aggiudicatario provvisorio, i termini di pagamento ed il saggio di interessi di mora, ha statuito che tale clausola è illegittima. Infatti «la legge di gara così formulata pare perplessa, in quanto lascia «in bianco» un elemento essenziale del contratto e viola altresì l’art. 64 del dlgs 163/2006, il quale prevede che il bando di gara deve contenere le informazioni di cui all’allegato IX A del codice ed ogni altra informazione ritenuta utile». L’amministrazione potrà limitarsi ad individuare una regolamentazione dei tempi e modi di pagamento (in questo modo costruendo una sorta di condizione generale di contratto cui la controparte partecipando aderisce) ovvero potrà, proprio sullo specifico profilo dei tempi e modi di pagamento, ed esattamente come normalmente avviene per il prezzo, invitare il concorrente a formulare, sulla base di individuati e legittimi parametri, un’offerta secondo lo schema dell’invito ad offrire. Ha ritenuto altresì il Collegio che così decidendo «non si entra in conflitto con quelle decisioni del giudice d’appello che hanno ritenuto inique nel concreto specifiche modalità derogatorie di pagamento individuate nei bandi, osservando ad esempio come le medesime, in violazione della normativa, venissero giustificate solo per ragioni soggettivamente connesse a tempi e modi di pagamento da parte dell’appaltante e non oggettivamente ancorate a ragioni di mercato; ancora scorrette sono state ritenute condizioni unilaterali derogatorie la cui accettazione veniva nel bando posta a pena di esclusione (Cons. St. sez. IV 2.2.2010 n. 469; Cons. St. sez. V 28.9.2007 n. 4996). La normativa prevede, infatti, che il contraente debole possa tutelarsi invocando un sindacato di equità sulla clausola in deroga; è evidente come la predisposizione di una deroga, nell’ambito di una gara, con vincolo di accettazione imposta a pena di esclusione (introducendo in questo modo una prerogativa di carattere autoritativo esercitabile proprio nel contesto dell’evidenza pubblica) possa risolversi in una elusione del sindacato di equità e non possa quindi trovare applicazione, come più volte stabilito dal supremo consesso amministrativo, a danno di colui che dichiari invece di voler partecipare alla gara riservandosi tuttavia di invocare il sindacato giudiziale di equità sulla clausola che ritiene iniquamente preconfigurata. La clausola unilateralmente predisposta potrà, per contro, legittimamente derogare alla normativa qualora resti aderente al dettato normativo che la legittima, se giustificata da ragioni oggettive che contemplino la «corretta prassi commerciale», ovvero la «natura della merce o dei servizi» la «condizione dei contraenti e i rapporti commerciali tra i medesimi». Conseguentemente l’amministrazione potrà invocare circostanze specifiche ed oggettive di mercato in base alle quali la stessa potrà chiedere che i propri creditori tollerino dilazioni di pagamento, ma la mera qualità di pubblica amministrazione non potrà mai giustificare la peculiare condizione che consente di introdurre regole diverse.

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