Così l’Imu pesa su capannoni e macchinari

Fonte: Il Sole 24 Ore

Stop alla “patrimoniale sui macchinari” e via libera a una deducibilità piena dell’Imu dalle imposte dirette e dall’Irap pagata sui capannoni. Sono i due nodi su cui il mondo delle imprese da tempo chiede un intervento chiaro e risolutivo del Governo per evitare che i beni utilizzati per l’attività produttiva finiscano per essere considerati un patrimonio immobiliare e non più strumentali all’attività di impresa. Con una tassazione che negli ultimi anni – con il passaggio dall’Ici all’Imu, accompagnata dalla rivalutazione delle rendite catastali – ha finito per penalizzare in misura trasversale tutti i settori, sia chi investe in impiantistica sia chi svolge attività d’impresa.
I due nodi denunciati a più riprese dal mondo delle imprese sono legati a doppio filo. La determinazione ritenuta impropria della rendita catastale dei cosiddetti “macchinari imbullonati” non fa che aumentare il prelievo applicato dai Comuni con l’imposta sugli immobili. E la deduzione limitata al 20% dell’Imu dalle sole imposte dirette e non dall’Irap resta da sempre una forte penalizzazione.

I macchinari imbullonati
Nella determinazione della base imponibile del fabbricato industriale oggi vengono inclusi anche macchinari e impianti come presse, forni, magazzini automatici ecc., ancorati al suolo ma che allo stesso tempo possono essere smontati, trasferiti da un sito all’altro, oppure ceduti per esser sostituiti. Si tratta, come detto, di “macchinari imbullonati” e non di veri e propri immobili che però, sulla base dell’attuale interpretazione di un regio decreto del 1939, entrano nella determinazione della rendita catastale. In questo modo le imprese finiscono per subire un consistente incremento delle rendite catastali e conseguentemente un aumento della base imponibile su cui oggi è dovuta l’Imu e in un prossimo futuro la nuova “local tax”. Il tutto peraltro con effetti di determinazione retroattivi e con pesanti ripercussioni anche in termini sanzionatori nei casi di mancati adeguamenti. Non solo.
Le norme di accatastamento dei fabbricati industriali spesso sono interpretate e applicate in maniera disomogenea sul territorio, con l’effetto – ad esempio – che in provincia di Brescia si paga l’Imu “sulle presse”, mentre in altre province questo non avviene. Il che si traduce di fatto sia in una distorsione della concorrenza sia in un’ennesima assenza della certezza della norma. Per superare l’interpretazione del Regio decreto del ’39 sia il Pd che Ncd hanno presentato più emendamenti alla legge di stabilità. Emendamenti che, sebbene non abbiano superato la tagliola dell’ammissibilità per carenza di coperture, potrebbero essere riproposti dal Governo in modo tale da superare i rilievi mossi. Le imprese in sostanza chiedono che che la norma del ’39 sia interpreta nel senso che «i fabbricati e le costruzioni stabili sono costituiti dal suolo e dalle parti ad esso strutturalmente connesse allo scopo di realizzare un unico bene complesso». In questo modo non si considerano strutturalmente connessi al suolo allo scopo di realizzare un unico bene complesso e non concorrono pertanto alla determinazione della rendita catastale «gli impianti e i macchinari che, indipendentemente dal mezzo di unione con il quale siano connessi al suolo, sono suscettibili di essere separati dal suolo, smontati e ricollocati in luogo diverso conservando la propria funzione economica».

La deducibilità Imu
La tassazione locale degli immobili strumentali ha subito un fortissimo aggravio con il passaggio dall’Ici all’Imu, con l’aumento dei moltiplicatori catastali e con le duplicazioni e le distorsioni del prelievo Tari/Tasi sulle aree produttive. Con un’aggravante non di poco conto: il costo Imu pagato dalle imprese è il solo che oggi sembra restare ai margini del principio generale della capacità contributiva, secondo cui tutti i costi – compresi quelli fiscali – che gravano sull’impiego dei fattori produttivi e che sono necessari per la produzione del reddito o del valore aggiunto, devono essere considerati rilevanti in sede di determinazione dell’effettiva ricchezza o valore aggiunto prodotti dall’impresa. Solo dallo scorso anno il Governo (allora targato Letta) ha previsto per il 2014 una deducibilità al 20% dell’Imu pagata dalle imprese ma solo ai fini del reddito d’impresa e non del valore della produzione e dunque dell’Irap. Per ridurre la penalizzazione e superare anche possibili rischi di incostituzionalità della misura, le imprese chiedono con la legge di stabilità un’estensione integrale, anche spalmata fino al 2018, della deducibilità dell’Imu sia dall’Ires sia dall’Irap.

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