Centrali uniche di committenza: avanti piano

Pochi appalti per i soggetti aggregatori e rischio caos. L’entrata a regime dell’idea di concentrare gli appalti delle amministrazioni pubbliche in soli 34 enti mostra subito i limiti operativi. Poche le categorie previste, e quelle poche soprattutto in ambito sanitario. E indicazioni molto superficiali, come nel caso del Veneto che chiede di programmare l’appalto per i servizi di ristorazione, senza specificare se si tratti di mense scolastiche, aziendali o catering di rappresentanza.

In molti hanno considerato l’idea, disciplinata dall’articolo 9 del d.l. 66/2014 e attuata dalla deliberazione n. 58 del 22.7.2015 dell’Autorità nazionale anticorruzione, come l’uovo di Colombo: aggregare tutti gli acquisti della pubblica amministrazione in pochi soggetti (in genere stazioni uniche regionali, ma non mancano le città metropolitane), per eliminare gran parte dei rischi di corruzione connessi alle moltissime procedure di appalto necessarie e ottenere anche prezzi migliori, grazie all’allargamento delle commesse e alla standardizzazione dei prezzi.

A ben vedere, questi obiettivi generali, meritori, saranno conseguiti solo in parte. A molti è sfuggito che l’articolo 9, comma 3, del d.l. 66/2014 non obbliga affatto le amministrazioni pubbliche a utilizzare in via esclusiva i soggetti aggregatori per acquisire lavori, servizi e forniture. La norma, in effetti, dispone che un tavolo dei soggetti aggregatori individuerà «le categorie di beni e di servizi nonché le soglie al superamento delle quali le amministrazioni statali centrali e periferiche, a esclusione di istituti e scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, nonché le regioni, gli enti regionali, nonché loro consorzi e associazioni, e gli enti del servizio sanitario nazionale ricorrono a Consip spa o agli altri soggetti aggregatori di cui ai commi 1 e 2 per lo svolgimento delle relative procedure».

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