Aliquote incerte fino al 10 dicembre

Fonte: Il Sole 24 Ore

L’Imu 2012 non troverà pace fino al 10 dicembre. Il testo dei correttivi al decreto fiscale votato ieri in commissione finanze al Senato sposta infatti a quella data il termine entro il quale un Dpcm potrà cambiare le aliquote dell’imposta per garantire (allo Stato) il gettito previsto dal decreto «salva-Italia».
Ciò che si prospetta, anche se la norma non lo dice, è in realtà un doppio Dpcm: il primo, relativo in particolare ad abitazioni e immobili commerciali e industriali, andrà scritto prima del 30 settembre, per dare modo ai Comuni di rivedere le proprie scelte locali su quella base.
Il secondo, dedicato al capitolo agricoltura, dovrà invece aspettare il 30 novembre, data entro la quale si concluderanno le operazioni di accatastamento dei fabbricati rurali. Il calendario, insomma, assomiglia sempre più a una maionese impazzita (chi si fosse perso nella pioggia di date può consultare la scheda qui sotto) e, oltre a più di un dubbio di legittimità sul fatto che uno o più Dpcm possano intervenire a fine anno per cambiare aliquote (si veda la pagina a fianco), mostra in modo sempre più palese le difficoltà di gestione dell’imposta dopo il debutto accelerato deciso a Natale.
I meccanismi di questa giostra sempre più articolata nascono tutti dallo stesso problema: il risultato è già scritto, perché il decreto «salva-Italia» chiede all’Imu di garantire allo Stato 9 miliardi, tramite la «quota erariale» che i Comuni devono girare a Roma, ma la strada per arrivarci è tutta da tracciare perché le tante novità dell’imposta aprono più di un’incertezza sul gettito effettivo. Anche perché le regole sono in continua “evoluzione”: nel passaggio in commissione al Senato la disciplina Imu imbarca l’esenzione totale per i fabbricati rurali nei Comuni classificati come «montani» (quindi anche sotto i mille metri di altitudine) per i fabbricati «inagibili» e «inabitabili», oltre all’azzeramento per i fabbricati di Comuni, edilizia popolare e cooperative a proprietà indivisa che era già contenuto nella prima versione degli emendamenti dei relatori. Bocciato, invece, un emendamento Idv che imponeva il pagamento dell’Imu alle fondazioni bancarie.
In un panorama così movimentato, che farà attendere sino a fine anno per avere un quadro stabile delle aliquote, non poteva passare liscia la data del l’acconto al 18 giugno (il 16 è un sabato), che l’Imu ha ereditato dalla disciplina Ici senza però riuscire a gestirla come la vecchia imposta che era ormai instradata da anni su un tranquillo tran tran. Per superare l’ostacolo (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri), gli emendamenti hanno riesumato una previsione che era già spuntata nelle prime versioni del decreto e che chiede di calcolare l’acconto in base alle aliquote «di riferimento» fissate dalla legge (4 per mille per l’abitazione principale, 7,6 per gli altri immobili tranne quelli strumentali all’attività agricola, per i quali è il 2 per mille). Una strada praticamente obbligata, con due risultati facilmente prevedibili: uno «sconto» temporaneo per i contribuenti, che comunque si limita a spostare al saldo di dicembre il pieno dispiegarsi dei rincari rispetto all’Ici 2011 e un problema ulteriore di cassa per i Comuni che infatti ieri hanno subito ribattuto per bocca del presidente dell’Anci Graziano Delrio che «l’acconto così non basta» e che lo Stato deve «garantire anticipi di cassa».
Le tabelle qui a fianco mostrano le conseguenze che la nuova disciplina avrà sull’imposta totale e sugli acconti per le varie tipologie di immobili in base alle aliquote che le Giunte hanno ipotizzato in queste settimane. In generale, comunque, l’ampia maggioranza dei Comuni sta pensando di ritoccare all’insù l’imposta, e l’acconto ad aliquote standard produce “sconti” proporzionale all’entità degli aumenti che saranno decisi a livello locale. Prendiamo un immobile (non prima casa) con valore catastale ai fini Imu da 100mila euro: con aliquota standard del 7,6 per mille, l’acconto è di 380 euro (la metà di 760), con una riduzione del 40% rispetto ai 530 euro pagati con aliquota al 10,6 per mille e del 26% rispetto ai 480 euro chiesti da un’aliquota al 9,6 per mille.

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